Storia di Rocca d'Arce

    Che Roccadarce fosse stata abitata fin da tempi lontanissimi non ci sono dubbi, tutto ciò è suffragato da testimonianze archeologiche risalenti all'età del ferro, probabilmente perché Roccadarce era situata in una zona centrale nella Valle del Liri, ricca di falde acquifere e di cacciagione. Nella costruzione della strada che da Roccadarce raggiunge il cimitero, vennero ritrovati reperti di ceramiche incise e decorate con scene casalinghe.

   La collina ove sorge Roccadarce si trova in una posizione privilegiata, sia dal punto di vista strategico, che militare e commerciale, per ciò fu preferita dai popoli antichi quale dimora sicura prima, fortificata (mura megalitiche e costruzione del castello) poi. Fu abitata dai Volsci, i quali vi costruirono l'Oppidum di Fregellae che fu varie volte conquistato e distrutto dai Sanniti, i quali capirono, che l'importanza strategica di Roccadarce (la famosa Arx Fregellana), poteva essere sfruttata dai Romani. Muri Megalitici testimoniano la "fortezza" che doveva essere allora l'antica Fregellae Volsca o come dicono altri Arx Volscorum di Fregellae, fatte ad opera poligonale, di enorme grandezza che si stagliano in un perimetro di un centinaia di metri dal castello.

    Il ruolo di importanza strategica di Roccadarce fu offuscato solo nel periodo dell'Impero Romano, che come ben sappiamo, aveva il potere assoluto su tutto il territorio in suo possesso, e quindi nessun altro poteva mettere in secondo piano la grande potenza di Roma, la quale però, pretendeva dalla popolazione i tributi e i beni materiali per affrontare le grandi guerre verso altri popoli. Tutto ciò fino a quando non cominciarono ad arrivare anche in Italia popoli con sete di conquista provenienti dal nord europa, quali Gotici, Bizantini, Longobardi, Barbari ecc. Qualche storico avrebbe attribuito a Roccadarce un ruolo importante ai tempi dell'invasione gotica, quando la fortezza sarebbe stata assediata per molti mesi da Narsete, il quale proprio a Roccadarce avrebbe distrutto la strenua resistenza degli ultimi avversari di Bisanzio ponendo fine così, alla sanguinosa guerra gotica e riconducendo l'Italia così sotto il dominio dell'Impero Romano d'Oriente.

    Dopo la conquista Normanna dell'Italia meridionale Roccadarce assunse di nuovo il suo effettivo ruolo strategico di primaria importanza; fu forse una delle fortezze più contese del Meridione anche perché, per arrivare al castello dovevano essere superate ben tre ordini di mura ripide ed impervie a difesa dell'unico lato accessibile per entrare; a completare l'opera poi, c'erano le varie Torri di esplorazione e avvistamento, sparse nel territorio circostante il Paese.

    Il normanno Riccardo, conte di Caserta (1038) se ne impadronì fino alla discesa dell'imperatore di Germania Lotario Terzo, in seguito, dopo sanguinose e numerosi tentativi, fu conquistato dall'avventuriero Mario Borrello (1154), assalita ed espugnata infine, dall'imperatore Enrico (1191) il quale cacciò il castellano Matteo Borrello, con tutti i difensori. Antiche cronache parlano di un lungo periodo in cui il castello fu governato dal Conte Diopoldo, il quale si rende responsabile di soprusi e scorrerie e fece di tutto, per aiutare l'ascesa al trono del piccolo Federico Secondo.

   Data importante e memorabile di Roccadarce fu il 1229, quando il Papa Gregorio Nono inviò un potente esercito per conquistare il castello, difeso da Raone di Azio, fedele di Federico Secondo. La resistenza dei difensori, favoriti dalla naturale condizione del luogo e dal munitissimo castello costrinse gli assalitori, dopo vari tentativi, ad abbandonare l'impresa ed a ritirarsi nei pressi di Ceprano, dopo aver subito gravi perdite. L'imperatore volle visitare di persona il castello (vi rimase dal 1 al 5 agosto del 1230) e ne ordinò subito il potenziamento; vi tornò anche l'anno successivo decidendo di fortificare anche le linee di confine lungo il fiume Liri.

   Il successore di Federico Secondo fu Manfredi, suo figlio naturale, avuto dal rapporto con Bianca Lancia, proclamatosi re in contrapposizione al legittimo erede, Corrado Quarto di Svevia imperatore di Germania; diversi pontefici fra i quali Innocenzo Terzo, provarono ad espugnare il castello, ma invano. Fu Clemente Quarto, eletto dopo la morte di Urbano Quarto che riuscì nell'impresa invitando in Italia Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, offrendogli per l'opera la corona di re di Napoli. I difensori del castello si arresero alla vista della sua potenza e, pur di aver salva la vita consegnarono il castello a Carlo d'Angiò. Manfredi scappò ma, dovette confrontarsi dopo poco tempo con d'Angiò nella battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) durante la quale Manfredi lasciò la vita sul campo di battaglia. Ecco alcune righe tratte dal racconto di Saba Malaspina sulla battaglia della presa del castello di Roccadarce da parte di Carlo d'Angiò: "... giunse intanto il re Carlo ad un castello inespugnabile, il quale per la sua altezza pareva toccasse il cielo, ed è chiamato dal popolo Roccadarce, in quanto, circondata com'è da scoscese rupi e quasi nella viva pietra tagliato, si eleva tra precipizi montuosi e a stento si può trovare un luogo più fortificato. Qui, su questa Rocca, come se fossa cosa facile, i francesi salirono miracolosamente. E' certo che se non avessero assunto le forme di uccelli, o non avessero i fianchi miracolosamente muniti di ali come Dedalo, si sarebbe potuto credere che vi fossero giunti dopo lungo tempo ..." . Come possiamo leggere l'autore evidenzia la inespugnabilità del castello anche se con toni profetici, perché allora era di profezia che si parlava, altrimenti la sua presa non era possibile.

   Scrive Giuseppe del Giudice, primo archivista del Grande Archivio Nazionale di Napoli di aver letto sullo "Statuto delle Castella del Reame"  che quello di Roccadarce, nella Terra di Lavoro (la quale comprendeva anche Napoli) era il più grande castello in assoluto, e ciò era documentato dal fatto che gli erano stati assegnati " ... in tempo di pace quaranta serventi ed un castellano scudifero ..." .

   Il Rinascimento fu per Roccadarce un periodo di storie travagliate, anche se fu sempre un luogo rispettato da tutti per le considerazioni già esposte, tanto fu che nel 1528, re Carlo Primo fece emanare un privilegio a favore del castello di Roccadarce secondo il quale doveva rimanere sempre demanio del Regno. Questo privilegio però, durò ben poco perché presto fu ceduto a Francesco Maria della Rovere e, quest'ultimo nel 1580 lo cedette a Giacomo Boncompagni fino al 1796 anno in cui fu reintegrato al demanio.

   Nel 1860, dopo la fine della dinastia Borbonica e l'annessione del Regno di Napoli al Regno d'Italia, il popolo di Roccadarce non tenne conto di questo cambiamento e seguì la vita di tutti i giorni come nulla fosse avvenuto, conservando perfino un'antica amministrazione borbonica. Nel territorio di Colle Dragone si verificavano spesso episodi di risse, brigantaggio (vedi il brigante Chiavone 1860-62). Questo episodio di rifiuto di aderire subito al Regno d'Italia di Roccadarce è possibile vederlo oggigiorno dal fatto che le vie del Paese non sono intestate, come altri, ai vari Garibaldi, Cavour o Mazzini.

Brani tratti dal testo "Roccadarce e il suo Castello"

di Franco Tomassi

 

Storia di Rocca d'Arce

Che si percorra la Casilina o l’Autosole, o le innumerevoli vie di comunicazione che, disegnando una fitta rete, solcano la Media Valle del Liri, da ogni parte si vede e suscita ammirata curiosità il prominente monte di Rocca d’Arce, con i suoi 556 metri d’altitudine ben evidenti.

Guardando da Sud-Est, vedi un’altura molto elevata, aspra nella sua roccia e brulla di vegetazione. Sulla cima svettano, arroganti, numerosi metallici tralicci, le antenne dei ripetitori televisivi. Antiche mura evocano l’immagine di un castello medievale, che pur ci fu: in realtà oggi si vedono solo i muri del locale cimitero. Più in basso si staglia la sagoma imponente della chiesa parrocchiale, comunemente detta di San Bernardo. Ancora più giù, si arrocca compatto il centro storico, inconfondibilmente medievale. Sono poche le costruzioni moderne, che appena appena riescono a contaminare la purezza dell’antica architettura urbanistica: il nudo cemento e i lastroni di cristallo del nuovo Municipio, le case popolari, l’edificio scolastico e qualche rara privata abitazione. Una fila di vetusti bruni cipressi corre dalla parte mediana del nucleo storico orizzontalmente verso Levante, ovè il faraglione maggiore col ‘Cauto’ e impreziosisce l’immagine paesaggistica.

Il “Cauto” è un ampio buco naturalmente prodottosi nella viva roccia del più grande dei faraglioni che scendono dal castello verso Est; un buco in verticale, sì che il faraglione appare come una vela bucata.

Guardando da Nord-Ovest, invece, la “Rocca” appare col suo enorme massiccio che si erge verso il cielo, e la pietra è tagliata a picco da creare uno strapiombo. Sulla sommità di questo picco meglio si vedono i pochi brandelli di mura dell’antico castello e meglio si comprende perché nell’antichità la “Rocca” si presentava come un presidio inespugnabile, mostruosa creazione degli dei e sede olimpica degli stessi. Su questo castello, invero, si rifugiarono principi, re ed imperatori, quando dovevano porsi al riparo dalle ostilità dei vari nemici.

Oggi Rocca d’Arce sviluppa la sua edilizia nella campagna, nelle aree più pianeggianti di Santa Lucia, Canale, Giardini, ma anche nei declivi collinari di Montenero, Collepizzuto, Fraioli. D’altronde, sarebbe impossibile aggiungere una casa al nido abitativo del centro storico, oltre cui non ci sono che dirupi. Come la gran parte dei comuni medievali della Ciociaria, il centro storico di Rocca d’Arce è ormai disabitato, abbandonato alla sua solitudine, alla sua lenta agonia. L’abitare, oggi, esige gli agi e le opportunità della civiltà post-industriale, soprattutto l’uso dell’automobile, con strade agibili ed il garage, o almeno il posto parcheggio, vicino l’uscio di casa, se non dentro la stessa abitazione: questo Rocca d’Arce “Centro” non lo può dare, con le sue stradine strette e tortuose, con le sue piazzuole anguste, con le sue salite superabili e fruibili per mezzo di gradini e ballatoi.

Il Castello Medievale

La gloria più grande di Rocca d’Arce sta nella memoria storica del suo Castello, di cui, pertanto, varrebbe ben la pena di salvare anche il più piccolo brandello di mura, anche la più labile vestigia. Peccato che sulla civiltà della storia prevalga, oggi, la civiltà delle comunicazioni, con le sue antenne televisive e telefoniche, quasi metalliche ortiche a ricoprire gli ultimi segnali di un castello grandemente importante per tutto il Medio Evo!

Importante perché era praticamente imprendibile, il Castello di Rocca d’Arce, importante perché era geograficamente posto in una posizione “chiave” nei conflitti incessanti tra l’Impero Bizantino, i Normanni, il Sacro Romano Impero, il Papato, i Guelfi e i Ghibellini, oltre che tra i vari castellani, i signori, i duchi, i conti e gli abati dell’Italia Centrale. In verità questo castello dominava l’ampia valle del Liri e del Sacco, chiamato quest’ultimo fiume Tolero nel Medio Evo e Trerus ai tempi dei romani, valle che costituiva il passaggio più importante tra il Nord e il Sud della Penisola.

Il Castello di Rocca d’Arce era imprendibile perché in parte inacessibile per la natura del sito, in parte munito di poderose fortificazioni. In tutto il lato Nord il Castello soprastava uno strapiombo di un paio di centinaia di metri, una rupe calcarea dalle pareti lisce e a perpendicolo. Ad Est lo strapiombo era collegato ad una serie di faraglioni per mezzo di apposita muraglia. A Sud e a Ovest l’ascesa al Castello era impedita da un complesso molto vasto ed articolato di fortificazioni. In alto si ergeva la mole centrale, attorniata da bastioni e torrazzi. La sua protezione era assicurata, inoltre, da più ordini di mura, almeno tre ordini, ma forse anche sette. Avamposti del Castello erano già ad Arce, a Campolato e a Colle San Martino. Un ordine di mura era lungo l’attuale Murata, le “Muratte”, che partivano da Santa Maria dello Stingone (Sant’Agostino o Sant’Antonio), risalivano fino al “Torrione” (punta Sud del Centro storico di Rocca d’Arce) da una parte, e dall’altra andavano fin verso il centro di Arce, da cui proseguivano verso l’attuale serbatoio dell’acquedotto sopra Santa Maria. Qui si vedono ancora dei resti. In questo modo le mura chiudevano ad U il Castello, in una morsa fortemente protettiva. Arce aveva altri posti strategici per la difesa del Castello di Rocca d’Arce: porta Germani, porta Carosi, il piccolo castello dove oggi sorge il Comune, porta Santa Maria. Altre mura cerchiavano il Castello, nel centro di Rocca d’Arce e lungo la linea delle primitive mura ciclopiche. Raramente si è vista una sì potente opera di fortificazione. Ed infatti il Castello di Rocca d’Arce ha resistito agli attacchi più formidabili e mai è stato preso per assalto, ma piuttosto per tradimento o per resa. Uno dei problemi più gravi poteva essere l’assedio, che impediva il rifornimento dei viveri e dell’acqua. Quando l’assedio non era totale, ma lasciava scoperto il territorio verso la campagna a Oriente, ingegnosi sottopassaggi potevano permettere la comunicazione ed il rifornimento idrico alla “Fontana a Monte” e alla “Fontana a Balle”, oltre il rifornimento alimentare nella sottostante zona che chiamiamo “Peschito”. La “Grotta del Diavolo” poteva essere uno di questi passaggi segreti.

Il Castello di Rocca d’Arce non fu una sontuosa comoda residenza, tipica del castello baronale, ma soprattutto un presidio militare, una roccaforte, che serviva alle operazioni belliche, allo stazionamento dei militari, al rifugio e alla sicurezza entro le sue mura di chi altrove si sentiva in pericolo. Basti pensare che re Manfredi, alla vigilia dello scontro fatale contro Carlo D’Angiò, dovendo scegliere un riparo sicuro per la moglie Elena e per i quattro figli in tenerissima età, individuò due castelli tra i più sicuri: Rocca d’Arce e Lucera. Scelse poi Lucera perché non vedeva in Rocca d’Arce una possibilità di eventuale fuga verso oriente. E aveva previsto bene Manfredi, perché Carlo D’Angiò, con i suoi Galli, i Francesi, riuscì a prendere il Castello di Rocca d’Arce, per resa di Federico Lancia, che pure aveva valorosamente combattuto.

Per la sua sicurezza il Castello di Rocca d’Arce era il più munito della provincia di Terra di Lavoro, compresa la stessa Napoli. In tempo di pace aveva assegnati quaranta serventi ed un castellano scudifero. Poi c’era Castel dell’Ovo di Napoli con trenta serventi e un castellano milite. Il castello d’Aversa aveva venti serventi; tutti gli altri non ne avevano più di dieci. Ciò si spiega dal fatto che il Castello di Rocca d’Arce si trovava in zona di confine, vera “chiave del Regno”.

Tra il 1155 e il 1162, il Castello di Rocca d’Arce fu rifugio di quei baroni che si erano ribellati al regime normanno di Sicilia, fino a quando il re Guglielmo I, detto il Malo, venne a catturarli facendo espugnare il Castello dal conte Lauro.

Enrico VI, imperatore del Sacro Romano Impero e, tra il 1195 e il 1197, re di Sicilia, era diretto alla conquista del Regno siculo, quando prese in ostaggio i più ragguardevoli cittadini di San Germano (Cassino), Castrocielo, Atina e li consegnò alla custodia in parte del castellano di Rocca Sorella (castello di Sora), Corrado Merlei, e in parte al castellano di Rocca d’Arce, Diopoldo.

Ultima dimostrazione del valore strategico e della garanzia di sicurezza del nostro Castello la rileviamo nel 1528, quando Carlo, re di Spagna e re di Napoli, giudicò i castelli di Rocca d’Arce e di Roccaguglielma (Esperia) inespugnabili e insostituibili per la sicurezza del Regno, tal che ordinò che questi castelli non potessero mai essere sottratti al dominio regio. Quindi nominò capitano al comando delle truppe, che qui erano di stanza, Bartolomeo Alarcon, il quale morì in Rocca d’Arce nel 1533 e fu sepolto nella chiesa di Sant’Agostino.

Dicevamo che poche volte il Castello di Rocca d’Arce fu preso, e quando ciò avvenne fu più per tradimento o per viltà o per miglior consiglio, che per assalto e per combattimento.

Ruggero I, re normanno di Sicilia, nella seconda metà dell’Undicesimo secolo, per ben due volte assalì il nostro Castello, conquistandolo, consapevole che, per mantenere un regno al Sud dell’Italia, bisognava possedere quell’importante fortezza sul monte Arcano, posta a “guardia” della Valle del Liri, ingresso obbligato per il Mezzogiorno. Non sappiamo, perché le fonti storiche a disposizione difettano, come e con quali mezzi il Castello di Rocca d’Arce fu conquistato da Ruggero I. Si consideri, peraltro, che siamo poco oltre il Mille, solo agli albori della storica importanza di questa fortezza militare medievale, contemporaneamente alla nascita del Regno Normanno di Sicilia, con i signori d’Altavilla Roberto il Guiscardo e con il fratello Ruggero, che, in trenta anni di guerra, dal 1061 al 1091, conquistava la Sicilia, preparando così il Regno e l’espansione dei Normanni nel Mezzogiorno della Penisola.

Alla morte di Ruggero gli successe nel Regno di Sicilia il figlio Ferdinando, dando luogo ad una fase incerta di passaggio che permise ai baroni ribelli, che erano stati esiliati dal Regno, di rientrare e di riprendere le proprie baronie. Tra questi baroni c’era Mario Borrello, che prese e incendiò Arce e poi passò all’assalto del Castello di Rocca d’Arce. Ormai il Castello è abbastanza munito e meglio può resistere. Gli assalti succedono agli assalti, fino a quando, il 21 agosto del 1155, il famigerato Mario Borrello sfonda la resistenza, penetra nel Castello, lo saccheggia e lo incendia. La conquista del Castello non fu per niente facile e richiese lungo tempo di cruenti combattimenti, nonostante che era stata già presa e incendiata Arce, venendo così meno i primi sbarramenti di difesa di Rocca d'Arce.

Nel 1191, l’imperatore Enrico VI scese in Italia, per riprendere il Regno, poiché un moto indipendentista siciliano favoriva la sovranità di Tancredi, conte di Lecce. Dopo aver ricevuto l’incoronazione dal papa Celestino III, l’imperatore, insieme alla moglie, Costanza d’Altavilla, diretto verso Napoli, scende per la valle del Sacco ed occupa Terra del Lavoro. Passa per Ceprano e si dirige ad occupare Arce, presupposto per la conquista del Castello di Rocca d’Arce, difeso, per conto di Tancredi, da Matteo Borrello. Questi scende subito ad Arce, per resistere già dalle prime avamposte difese del Castello. Ma Arce cede all’attacco dell’imperatore, si arrende senza nemmeno combattere, impaurita dal numeroso esercito imperiale. Rocca d’Arce, invece, resiste con fierezza e impegna tutta la capacità bellica dell’esercito di Enrico VI, fino alla dura inevitabile resa. “Imperator - narra l’Anonimo Cassinese - Campaniam descendens... Roccam Arcis violenti ‘capit insultu” (L’imperatore, dirigendosi verso la Campania, prese Rocca d’Arce con feroce assalto).

La resa di Rocca d’Arce suscitò grande scoraggiamento, tra gli alleati di Tancredi, tal che cessò ogni resistenza contro l’Imperatore. San Germano, cioè Cassino, impressionata dalla resa di Rocca d’Arce, si piegò al destino e giurò fedeltà ad Enrico VI. Pietro da Eboli, poeta di quei tempi, così narra l’avvenimento in un suo Carme: “Quando capta est per vim Rocca d’Archis, / Subito imperio Notani gloria castris, /quo Dux a misero Rege Burrellus erat. /Exemplum cuius quamplurima castra. seguuntur, / Archis enim Princeps ‘nomen et esse gerit”(Quando con la forza fu presa Rocca d’Arce, si sottomise all’impero la gloria del Castello, in cui Borrello era comandante per parte del povero Re. Seguirono il suo esempio la maggior parte dei castelli, sicché il Principe porta il nome e le sostanze della Rocca). Avuta, così, la “chiave”, Enrico VI poté continuare la conquista, occupando la Valle di Comino, Teano, Capua, Salerno, dopo aver pensato a ricostruire le difese del conquistato Castello di Rocca d’Arce, ponendovi come castellano Diopoldo. La marcia, conquistatrice di Enrico VI fu arrestata a Napoli da una epidemia: l’imperatore, ammalato, fu costretto a tornarsene in Germania. Ne approfittò Tancredi per riconquistare terre e città di Terra di Lavoro.

Innocenzo III, papa tra il.1198 e il 1216, si impegnò a domare la insolenza di tre ribaldi signori, Diopoldo di Rocca d'Arce, Corrado Merlei di Sora e Marqualdo di Ravenna, i quali in pratica, con le loro scorrerie, dominavano molte terre del Mezzogiorno. Il Papa, per questa impresa, chiamò dalla Francia il conte di Brenna, Gualtiero, che riuscì a conquistare Aquino, scacciandovi il castellano che vi era stato posto da Diopoldo. Indi, Gualtiero insegue Diopoldo, lo incontra presso Capua, dove lo sconfigge in una acerrima battaglia. Rocca d’Arce, nel frattempo, era stata affidata da Diopoldo al conte di Sora, Corrado Merlei. Contro costui Innocenzo III invia il suo Camerlengo Stefano di Fossanova, con un formidabile esercito, il quale vittoriosamente occupa Sora e Sorella, la rocca di Sora, facendo prigioniero Corrado Merlei. Quindi, Stefano di Fossanova procede alla conquista di Rocca d’Arce, dove era castellano Ugo, ma, scoraggiato dalle fortificazioni del Castello, preferì trattare la resa. Ugo pretese pesanti condizioni: trecento cavalli, mille once d’oro, la libertà per Corrado Merlei e compagni che erano tenuti prigionieri.

Nel 1210, l’imperatore Ottone IV scende in Italia e cerca di riprendere il Castello di Rocca d’Arce, che era passato in possesso del Papa. Giova ricordare che in questo periodo Innocenzo III era tutore del minorenne re Federico Il. Il tentativo di occupare Rocca d’Arce fallì. Allora l’imperatore incaricò l’antico castellano di Rocca d’Arce, Diopoldo, di riconquistare Aquino e Rocca d’Arce. Ma Diopoldo non riuscì a prendere Aquino e tanto meno Rocca d’Arce, di cui conosceva bene le potenti fortificazioni.

Nel 1229, il nostro Castello fu attaccato dal grande esercito approntato dal papa Gregorio IX per la conquista della Sicilia. I soldati papalini portavano la divisa militare fregiata delle chiavi di San Pietro, per cui furono chiamati Chiavisignati. L’esercito prese i castelli di Ponte Solarato, cioè di Isoletta di Arce, di San Giovanni Incarico e di Pastena. Poi passò all’assalto di Rocca d’Arce, dove era castellano Raone di Azio. Questi predispose una difesa ferratissima e resistette arditamente fino a che l’esercito dei Chiavisignati dovette togliere l’assedio e ritirarsi sconfitto nel quartiere generale di Ceprano.

Nel 1250, registriamo altra strenua resistenza del Castello di Rocca d’Arce contro l’assalto di Corrado IV, il quale era sceso in Italia per riconquistare il Regno. Risalendo dalle Puglie, Corrado IV pose il suo accampamento nella campagna di Arce, nella zona che attualmente si chiama Campostefano, e provò a prendere il Castello di Rocca d’Arce, senza riuscire nell’impresa: era castellano il valoroso Bertoldo.

Altra resistenza aspra e vincente Rocca d’Arce la oppose al papa Alessandro IV, che era intento a recuperare molte terre oltre il confine del Liri. Rocca d’Arce e Sora non cedettero.

A papa Alessandro IV succedette Urbano IV, il quale, continuando l’opera del predecessore, chiamò in aiuto il francese conte Roberto di Fiandra: Quando costui giunse ai piedi del Castello di Rocca d’Arce, spaventato dalle imponenti fortificazioni, se ne tornò da dove era venuto.

Sfortunatamente per Rocca d’Arce, funestamente per re Manfredi, salì sul soglio pontificio Clemente IV, il quale dalla Francia fa venire in Italia Carlo I D’Angiò. Carlo D’Angiò e Manfredi si contendono il Regno di Napoli. La difesa che Manfredi appronta nel Mezzogiorno ha il suo fulcro nel Castello di Rocca d’Arce. Il re pone l’accampamento in Arce, in quella località che ancora oggi si chiama “Campo Manfredi”. Contemporaneamente pensa alla difesa marina, ponendo una flotta di sbarramento con navi siciliane, napoletane e pisane. Carlo D’Angiò riesce a sfuggire alla flotta ed entra in Roma, festante, dove è incoronato re di Napoli e di Sicilia. Quindi si dirige ad occupare tutti i castelli ai confini con lo stato pontificio, tra cui Rocca d’Arce, che più di ogni altro ha il coraggio e l’orgoglio di resistere. Ciò fu anche segno di amor di patria e di fedeltà, poiché re Manfredi si poteva ritenere più italiano che straniero, nato in Italia e da madre italiana, Bianca Lancia, mentre Carlo D’Angiò era in tutto e per tutto uno straniero, considerato un usurpatore nei confronti dello svevo Manfredi e del Mezzogiorno d’Italia. La difesa di Rocca d’Arce era affidata al valorosissimo Federico Lancia, affiancato da Rinaldo d’Aquino e da Guglielmo Lancia, fratello di Federico, che difendevano il confine lungo il fiume Liri. Purtroppo, la prima falla nella difesa contro Carlo D’Angiò si aprì con il tradimento di Rinaldo d’Aquino, che, oltretutto, era cognato di Manfredi. Pertanto, a Carlo fu facile spezzare la resistenza lungo il Liri, a cui seguì l’assalto al Castello di Rocca d’Arce. Leggiamo dalle Cronache:” venit (Carolus) pro pere ad quoddam inespugnabile castrum, quod aliquid con trari videtur, haberi cum Rocca Arcis appelletur a vulgo: hac enim Rocca vixfortior potest inveniri quam rupes monstruosae circumdant: et quasi de medio petrarum confixam, saxosa amntium paerupta convallant. Hanc Gallici pedites, qui quasi leve quid essent, niiraculose consedunt”. Un’approssimata traduzione è la seguente: Carlo giunse rapidamente presso un inespugnabile castello, che appariva come qualcosa di respingente e dal volgo era chiamato Rocca di Arce: non si può trovare infatti una rocca più fortificata di questa, circondata da mostruose rupi; e, quasi conficcata nel mezzo di faraglioni, la proteggono sassosi precipizi. I fanti francesi più agili di quanto non fossero, conquistarono miracolosamente questa Rocca.

La presa del Castello di Rocca d'Arce fu ritenuta, dai fautori guelfi, sostenitori del papa, più opera della volontà di Dio, che dei Francesi. Si immaginò che i soldati di Carlo D’Angiò avessero messo le ali per superare quelle incredibili difese. Sta di fatto che i difensori del Castello furono impressionati dal numero degli assalitori e dalla loro audacia, tanto che Federico Lancia non ebbe altra scelta, oltre la disperazione e la resa. Ormai a Carlo D’Angiò è aperta la porta del Regno.

Dal 1266, con la sconfitta e la morte di Manfredi, finisce la fase epica del Castello di Rocca d’Arce, che passerà da un signore all’altro e andrà scemando la sua importanza militare. Il suo possesso sarà dei Gianvilla, dei Cantelmo, della Regina Giovanna, di Caterina d’Aragona, dei signori Della Rovere, infine dei Boncompagni.

I Boncompagni entrarono in possesso del Castello di Rocca d’Arce sin dal 1583, con Giacomo Boncompagni, duca di Sora. Questi signori furono particolarmente devoti a San Bernardo. Nel 1698 Antonio Boncompagni donò a Rocca d'Arce la cassa di piombo in cui conservare il corpo del Santo Pellegrino.

Il massimo grado di sicurezza e di splendore il Castello di Rocca d’Arce lo aveva raggiunto con Diopoldo, fatto castellano dall’imperatore Enrico IV. Figura tra il bandito e il principe, valoroso condottiero e avido opportunista, Diopoldo riuscì a crearsi uno stato nel Regno, rivestendo perfino un ruolo di difensore della legalità. Difese la legittima successione al trono imperiale di Federico TI, ancora in età minorile. Si distinse per valore nelle battaglie di Aquino e di Capua, contro gli alleati di Tancredi, facendo anche prigioniero Riccardo da Carinola, che rinchiuse nel Castello di Rocca d’Arce. Da qui Diopoldo faceva leggi, emanava decreti, amministrava la giustizia, in quel suo stato improvvisato che arrivava fino a Fondi e ad Acerra, presso Napoli. In quegli anni di disordini, di lotte per l’investitura imperiale, non essendo Federico II ancora giunto alla maggiore età ed essendo suo tutore papa Innocenzo III, tutto sommato, Diopoldo svolse una funzione vicaria dei legittimi poteri nell’ordine sociale, contro le ribalderie di furfanti, ladroni e briganti che infestavano il Mezzogiorno.

Dal Passato al Futuro

La maggior gloria di Rocca d’Arce fu nella sua fortezza, l’Arx Volscorum, o Arx Fregellana, e poi nel Castello medievale, punto strategico di primaria importanza, sulla linea di confine e di accesso al Mezzogiorno. In realtà, a proposito del Castello, si è trattato di una gloria cui non tutto il popolo partecipava e contribuiva direttamente.

Una gloria riservata agli eserciti, ai condottieri, ai castellani, se mai partecipata solo di riflesso con il popolo, che per lo più ne subiva gli aspetti negativi, come gli assedi, i rifornimenti, le devastazioni, le angherie, i tributi. Il sistema economico del vassallaggio, che vedeva ben distinti e lontani tra di loro ricchi e poveri, padroni e servi, possidenti e posseduti, non era, finito nemmeno con le leggi eversive dei privilegi feudali di Napoleone, nel 1806; non era finito nemmeno con le leggi dello Stato Unitario; non era finito nemmeno dopo la prima e seconda guerra mondiale. Ancora nell’ultimo dopoguerra, negli anni Quaranta, negli anni Cinquanta, a Rocca d’Arce c’erano ben distinti ricchi e poveri, padroni e servi, signori proprietari terrieri e contadini coloni, servi della gleba. Il divario era evidente. Pochi i “signori”, residenti nei palazzi baronali del Centro, in tutto quattro o cinque famiglie. “Fuori”, cioè in campagna, viveva oltre il novanta per cento della mano d’opera contadina, con i pochi “guardiani”, forse cinque o sei, che avevano il compito di curare gli interessi del “padrone”, badando alla stima e alla sorveglianza del raccolto.

Si racconta un fatto, divenuto aneddoto, a Rocca d’Arce, ironico e significativo. Gino era un colono di Don Federico; nella sua casupola, in cima al “Morrone”, aveva molte bocche da sfamare e poca, troppo poca farina che il “padrone” gli assegnava. Perciò aveva pensato bene di sottrarre, al tempo del raccolto, qualche tomolo di grano dalla quota, che era la più grossa, spettante al padrone. Così, una mattina, di buon’ora, coll’asinello, Gino si recò al mulino, alla Murata di Arce, per macinare quel poco prezioso grano. I signori, di solito, dormono fino a tarda mattinata! Ma quel giorno Don Federico passò presto al mulino e, visto il colono che era venuto a macinare, spiritosamente apostrofò Gino: “Com’è, Gì, pure tu vieni al mulino?”. E Gino, di rimando, con prontezza e altrettanto spirito: “Perché, don Federì, a vossignoria te lo mangi a vachera il grano?”. “Vachera” sta per chicchi.

Caratteristica della socio-cultura di Rocca d’Arce è stato l’artigianato, espresso totalmente nella produzione di calzature. I calzolai di Rocca d’Arce erano concentrati tutti nel Capoluogo. C’erano solo un paio di falegnami, un paio di bottai, un paio di sarti, per soddisfare le richieste dell’intero paese. Mentre i calzolai producevano per una larga clientela esterna, estesa a tutta la provincia. L’artigianato al femminile contava forse una sarta e una fornaia. Percorrere le strade del Centro, fino agli anni Cinquanta, era una esperienza unica: da una parte all’altra si sentiva il caratteristico battere del martello del calzolaio; si avvertiva il singolare odore di pece occorrente ad incordare lo spago per cucire, con la lesina veloce, le tomaie alle suole; si vedeva il deschetto - gliu bancózze - attorniato da apprendisti ed operai intenti chi a martellare, chi a tirare lo spago con le braccia che si aprivano e si chiudevano a ritmo sincopato, chi ad immergere le suole nell’acqua sempre nera. I calzolai costituivano una classe sociale intermedia, tra i contadini e i signori”. Sono stati i primi del popolino a poter disporre di moneta, con i conseguenti benefici. Erano quelli che si potevano permettere di comprare un vestito, erano quelli che per primi avevano dismesso l’uso delle cioce. Due, tre volte la settimana andavano a “fare i mercati” nei centri maggiori della Provincia, portando a vendere le loro scarpe, di buona fattura, il venerdì ad Arce, il sabato a Ceprano e Cassino, il giovedì a Sora e a Frosinone.

La vita agricola e artigianale era piena di stenti e di sacrifici, per soddisfare i bisogni primari del vivere quotidiano, senza sogni e senza ambizioni da poter esprimere. In casa non c’era l’acqua, non c’erano i servizi igienici, non c’era la luce elettrica. Si usava il focolare e la “fornacella” per cucinare. L’acqua, per bere e per gli usi domestici essenziali, si andava a prendere alla fontana, percorrendo anche più di qualche chilometro a piedi, con la “cannata” o, solo chi disponeva di un animale da soma, con i barili. In ogni casa troneggiava, fragile e preziosa, la “cannata”, col becco avaro a dissetare, collocata nell’apposita nicchia, sempre pronta per essere portata in capo, sulla “spara”, all’Abballe, all’Ammonte, a Canale, a Santa Lucia, alla Peschèra, alla Fontana di San Bernardo, dove, con l’acqua, si attingevano le ultime notizie della cronaca paesana. Il primo acquedotto, di Arce - Rocca d’Arce, fu fatto nel 1934, anno XII dell’era fascista, ma serviva solo le pochissime fontane pubbliche, prima di passare alle rare utenze private, a cominciare da quelle dei “signori”. La luce elettrica fu installata prima al Capoluogo e poi, nel dopoguerra, in Campagna.

La rivoluzione socio-culturale ed economica più radicale e coinvolgente Rocca d’Arce l’ha operata intorno agli anni Sessanta, con la vera e reale rottura dello schema feudale e con la coraggiosa apertura verso l’economia industriale. A cominciare questa nuova fase hanno contribuito lo spirito innovativo e l’iniziativa dei calzolai e dei pochi commercianti, sganciati dal sistema del vassallaggio medievale. E poi è stato determinante il crollo dell’economia agricola, per cui nemmeno i più grandi proprietari terrieri sono riusciti a ricavare dall’agricoltura un’indipendenza economica. Un solo proprietario terriero è riuscito a creare un’apprezzabile azienda agricola. I Rocchigiani, negli anni Sessanta, si sono dati totalmente agli impieghi nei vari settori della pubblica Amministrazione e all’occupazione nelle varie fabbriche piovute in Ciociaria, a cominciare dalla FIAT. In ogni famiglia è entrato almeno uno stipendio o una pensione, permettendo l’inserimento degli abitanti della Rocca nel flusso della generalizzata economia industriale, in cui le parole come “padrone”, “colono”, “parzenacolo’, “cafone’, vossignoria, sono un lontano ricordo.

Oggi Rocca d'Arce è un paese che conserva con orgoglio le sue gloriose storiche memorie, che è consapevole della sua dignità socio-culturale, che ha le risorse per progettare il suo futuro giocando ruoli non subordinati o subalterni ma di responsabilità e compartecipazione. Non ci sono soltanto aride rocce, oggi, a Rocca d'Arce, ma ci sono anche vedute panoramiche incantevoli sull’amena Valle del Liri, ci sono ammirevoli scorci paesistici, sprazzi di verde e alture ossigenate, ma ci sono soprattutto intelligenza e buona volontà.

Brani tratti dal Forum del sito "www.politicaonline.net"